Ten minutes take
Sapete perché faccio lunghe
riprese senza stacchi? Perché non conosco bene la tecnica, non so girare. Questo
diceva alcuni anni fa un noto regista italiano, ma era, la sua, un’uscita
snobistica nemmeno peregrina: confessare un’ignoranza di base nel proprio
mestiere può concedere una patente “artistica” innata, un “periodo blu” al quale
si è arrivati intuitivamente, senza saper disegnare. Non c’è niente di male,
comunque a scegliere una strada piuttosto che un’altra. Nemmeno quando un
maestro assoluto, padrone della grammatica e della sintassi, vorrebbe fare un
intero film in un'unica ripresa e però deve accontentarsi di inquadrature lunghe
“solo” dieci minuti, perché la bobina della cinepresa può contenere un tot
numero di metri di pellicola e non di più.
Si dice che Nodo alla gola nacque da una scommessa e non è vero. Si dice
pure che Alfred Hitchcock (è di lui che parliamo) intendesse ad ogni costo
applicare al cinema le famose tre unità di Aristotele: il tempo, il luogo e
azione. Si ripete cioè, a proposito di Rope, la leggenda di
film-esperimento, dove il regista (in questo caso per la prima volta anche
produttore) azzarda un gioco tutto di testa e rischia l’osso del collo per una
bizzarria narcisistica. Niente di tutto questo, e non solo perché Hitchcock era
un tipo avveduto. Ma perché l’inquadratura lunga, quella che esaurisce in se
stessa l’azione di una scena, è nata con il cinema, forse con L’uscita dalla
fabbrica dei Lumière. E’ il montaggio che è venuto dopo, la messa in
relazione di un’immagine con un’altra. Perciò ogni volta che riscopriamo il
piano-sequenza (brutto francesismo ormai insostituibile) come un evento
miracoloso, dovremmo ricordarci che è un ritorno al grembo materno.
Invitandoci al suo macabro party, col morto nascosto in una cassapanca,
Hitchcock voleva giustamente farci diventare coprotagonisti. Perciò lo sguardo
della macchina da presa stavolta non è quello dell’autore o di uno dei suoi
personaggi, ma il nostro, di spettatori-ospiti nel grattacielo insieme a James
Stewart e fianco a fianco con i due giovani assassini. Hitchcock evita gli
stacchi (ce ne sono sette in tutto e ben mimetizzati), ma non fa a meno del
montaggio: lo costruisce all’interno dell’inquadratura (montaggio “nel quadro”
si diceva una volta, al posto di montaggio “di quadri”) ed è commovente la sua
ossessione a fingere che tutto si svolga davvero in ottanta minuti d’orologio.
Il maestro sa meglio di noi che il tempo del cinema non è mai il tempo reale,
che sullo schermo esiste il tempo soggettivo che ogni spettatore avverte in
maniera differente. Ma Hitchcock è un maestro di illusioni, e noi ci lasciamo
prendere nelle sue trame senza opporre resistenza.
Gianni Amelio,
(Regista) -
(Tratto dalla rivista Film-TV)
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