I corpi e
i fantasmi
L’ho sempre
pronunciato con l’accento sulla i. “Vertìgo” come in
latino. Pensavo che a sbagliare fossero gli altri, quelli che
dicevano “Vèrtigo” con l’accento sulla e. Invece,
ignorante, non sapevo che nel vocabolario inglese esiste proprio
quella parola e significa appunto vertigine, perdita di
equilibrio, panico nel vuoto. Che bel titolo…
E come è stato banalizzato in Italia, in Francia (“Sueurs
froids”/Sudori freddi), e magari nel resto del mondo.
Considerando che il romanzo originale si chiama “D’entre les
morts”, verrebbe voglia di dire ai traduttori: mettetevi un
po’ d’accordo, si tratta sempre della stessa storia…
Ma Hitchcock ostentava un distacco superiore verso queste
piccolezze. L’importante era che il film toccasse il maggior
pubblico possibile, che ognuno, in ogni paese, avesse la sua
fetta di torta. Tranche de gateau definiva infatti il
proprio cinema, distinguendolo con orgoglio da quello che
tendeva invece al ritratto realistico, alla tranche de vie,
appunto… Il cinema per lui era un sogno, intrattenimento puro.
Ma nessuno più di lui ha dato all’intrattenimento, allo
spettacolo, stile e profondità. Molte definizioni sono riduttive
o bugiarde: quella di Hitchcock quale “mago del brivido” suona
addirittura offensiva. Basta “La donna che visse due volte”
a spiazzarci su ogni fronte… Intanto il ritmo è insinuante,
avvolgente, solenne, come mai è accaduto in un thriller. La
scansione delle inquadrature, i tempi del montaggio obbediscono
non alle azioni, ma ai segreti dei personaggi. La suspense si
sviluppa negando la sorpresa. E il film, mentre svela a tre
quarti dalla fine la chiave della sua trama, ci dice che a
Hitchcock interessa qualcos’altro. Dopo averci catturati con una
vicenda affascinate quanto inverosimile, il maestro si rifiuta
di portarla fino in fondo secondo i canoni, e ci costringe a
seguirlo nel labirinto di un’ossessione inconfessabile. Il
momento rivelatore del film non è la scena in cima al campanile,
ma quella in cui James Stewart, nella stanza d’albergo
che si colora di verde per il pulsare di un’insegna al neon,
aspetta che Kim Novak esca da bagno trasformata da Judy
in Madeleine, cioè nella donna scomparsa per colpa sua…
Allora sappiamo che “Vertigo” non è solo un film di
morti. E’ anche (o soltanto) un film di vivi che non possono
amare. E ci fa paura. Ci fa venire i brividi. Non perché c’è una
porta che scricchiola o qualcuno che agita una mannaia. Ma
perché ci insinua nel cuore un sospetto crudele: forse il solo
amore eterno di cui siamo capaci è quello che non c’è, per chi
non ci può appartenere. L’amore che non muore è l’amore per un
fantasma.
Gianni
Amelio
(regista) – tratto dal settimanale Film–TV |
Chi dice
Donna…
Un sospetto di
misoginia: certe donne di Hitchcock incedono attraverso i suoi
film, a volte crudeli, a volte solo segnate dalla vita, e
mantengono intatto oltre la fine il loro mistero. Judy che si
trasforma due volte in Madeleine (la prima per denaro, la
seconda per amore) è solo la più emblematica. Marlen Dietrich
in “Paura in palcoscenico” (innocente) e Alida Valli
nel “Caso Paradine” (colpevole) non sono poi molto
diverse, nel loro algido gioco di seduzione. Tippi Hedren,
in “Marnie” e “Gli uccelli”, è un groviglio
indecifrabile; e Grace Kelly era comunque troppo bella
per non essere pericolosa. Karen Black in “Complotto
di famiglia” è una dark lady senza scrupoli ed Eva Marie
Saint in “Intrigo internazionale” ha un “passato” da
far dimenticare all’eroe. Come aveva persino la dolcissima
Ingrid Bergman di “Notorius”, che innesca con Cary
Grant il più puro dei rapporti sado-maso hitchcockiani. Perché
in realtà, le sue donne sono spesso “sospette”, i suoi uomini
sono quasi sempre sadici indolenti, solitari, inclini alla
sopraffazione e all’ossessione.
Forse, non era una questione di misoginia, né di misantropia;
forse Hitchcock conosceva bene le ombre dell’animo umano.
Emanuela
Martini
– tratto dal settimanale Film-TV |